05. Troppo intelligente per essere felice
Avere un quoziente intellettivo (QI) alto non è sempre una benedizione. Le mie disavventure di “bambina precoce”. Prima parte (sì, non finirò qui di parlare di alto potenziale cognitivo).
“Troppo intelligenti per essere felici” è il titolo di un famoso libro sulla plusdotazione, scritto dalla psicologa francese Jeanne Siaud-Facchin1. Ma io l'ho scoperto solo poche settimane fa, quando me l’ha consigliato la mia psicologa (grazie Sara). Prima era solo una cosa che mi dicevo, constatando la mia “fatica di vivere” (parole di mia madre) da quando ero bambina.
“Sarebbe così bello avere il cervello vuoto, almeno per un po’”. “Come sarebbe la mia vita se non comprendessi tutto così velocemente e lucidamente?”. “Beato Tizio che vive sereno nella sua incoscienza”. Sono solo alcune delle cose che mi sono detta, dall’adolescenza in poi. Molto sottovoce, perché parlare di intelligenza è un po’ come parlare di soldi: più ne hai e meno lo fai, perché capisci ben presto che “ostentare è poco elegante”.
Il fatto è che avere un quoziente intellettivo alto2 mica è un merito - anche se da piccola credevo di sì, e gongolavo per tutti quei complimenti. Che venivano solo da persone adulte, ovviamente, le uniche di cui mi interessasse il parere. Avere un QI alto è come essere alta un metro e ottanta: figo, ai concerti ci vedi meglio, ma non hai dovuto lavorarci. Semplicemente, con quei geni ci nasci.
Solo che nella nostra società il quoziente intellettivo non è una caratteristica neutra (come molte altre, del resto). E visto che io non ho mai avuto lineamenti da bambola, fin da piccolissima ho capito che era meglio puntare sull’intelligenza. Non ho avuto davvero scelta, però: quando sei precoce, intorno a te si formano capannelli di persone adulte adoranti e in visibilio. Pendono dalle tue labbra da cui escono commenti sugli Aztechi e la “Divina commedia”. Ti coprono di elogi. E sono decisamente più interessanti delle creature della tua età, le cui passioni sono i camion e le Barbie.

Ricordo quando, a 6 anni, il secondo giorno di prima elementare, ho deciso che non mi interessava più essere amica di G, grandissimo appassionato di ruspe, la cui nonna abitava nella casa vicina a quella della mia famiglia, perché non era abbastanza bravo a scuola. Lui probabilmente avrà tirato un sospiro di sollievo, dato che non volevo mai giocare, e se accettavo di farlo era solo per ricoprire ruoli di leadership tipo la mamma con il bambino o la prete3 con il chierichetto.
Infatti, una delle mie attività preferite, da piccola, era l’esegesi biblica. Tutti i mercoledì sera ci trovavamo (una ventina di signore e io, dodicenne) nel convento delle suore francescane di Cristo Re, nella ridente Pralongo (paese di 100 anime in Valzoldana, provincia di Belluno), e suor Maria Goretta4 spiegava le letture della domenica successiva, a messa. Io adoravo le sue spiegazioni parola per parola, soprattutto quelle dell’Antico testamento. (Quando dico che sono fissata con le parole dacché ho ricordi, è proprio così.) Comprensibile che le bambine e i bambini che avevo in classe non facessero a spintoni per fare amicizia con me, direi.
Non ero popolare in classe, ma non era solo colpa mia. Quando sei una bambina brava e tranquilla e veloce a capire le cose, gli adulti dimenticano che sei una bambina. Ti iper-responsabilizzano, le loro aspettative diventano altissime, e ti delegano compiti che spetterebbero a loro, tipo occuparsi dell’istruzione e dell’educazione dei tuoi coetanei5. Io non ho mai potuto decidere dove stare in classe, scegliere la mia compagna di banco tra le poche bimbe che mi sopportavano e io sopportavo: dovevo stare vicino ai miei compagni più vivaci e distratti, per calmarli e spiegargli le cose che non capivano. Per questo sono così brava a spiegare le cose: lo faccio da quando avevo 6 anni - in effetti potrei scriverlo nel cv. Ovviamente questa attività da “vice maestra” o “vice prof” non contribuiva a farmi guadagnare punti simpatia in classe.

Sono arrivata ai 14 anni convinta di essere molto più intelligente dei miei compagni e delle mie compagne, e quindi convinta di essere molto migliore di loro. Anche perché nella mia famiglia l’intelligenza - che peraltro veniva confusa con la cultura, altro errore comune - era l’unico valore degno di essere perseguito e celebrato. Questa convinzione mi ha preservata, in un certo senso, perché fino a quell’età non ho patito così tanto la solitudine, e anche i dispetti, le prese in giro e - ogni tanto - le botte non mi tangevano granché, dato che ero convinta fosse meglio stare da sola piuttosto che accompagnarmi a persone che non consideravo al mio livello intellettuale, e in fondo mi annoiavano.
Arrivata al ginnasio di Belluno, però, è cambiato tutto. Innanzitutto, ho capito che non ero un genio. Ok, non ero nemmeno stupida, ma sicuramente non ero un genio. E quest’amara consapevolezza mi ha tormentato per almeno un paio d’anni, come se fosse una maledizione: vagavo per casa urlando: “Ecco, perché non sono brava in un’unica cosa, come Beethoven?” (io drama queen dalla nascita).
E poi ho capito che non potevo più farla franca come prima, ascoltando le lezioni in classe e leggendo i libri che volevo: al ginnasio si aspettavano che studiassi, e io non avevo idea di come si facesse. Non l’avevo mai fatto. Non solo: si aspettavano che io ricordassi a memoria un botto di roba: formule matematiche, paradigmi di greco e di latino. E chi cazzo sapeva usarla, la memoria. Io avevo difficoltà a ricordarmi anche le preghiere che recitavo (abbastanza) diligentemente ogni sera, figuriamoci decine di stringhe scritte in un alfabeto astruso6.
Le superiori in “città”7 sono state uno shock. Ho iniziato a soffrire di mal di testa, continuo. Un sottofondo costante, con picchi che non mi permettevano nemmeno di alzarmi dal letto. E non mi riconoscevo più: io, che mi ero identificata per 8 anni come “la più brava della classe”, e essere intelligente era il mio unico tratto identitario distintivo, a quel punto non sapevo più chi ero.
Sono stati 5 anni d’inferno. Ero costantemente infelice. Volevo eccellere a scuola, perché così era stato fino ad allora, e misuravo il mio valore di persona sui risultati scolastici, ma la pressione e le aspettative erano troppo alte per me, e quindi somatizzavo con questi mal di testa invalidanti. Ho rischiato sempre di essere bocciata per le assenze, quasi 2 mesi l’anno. Sono riuscita a essere promossa solo perché i miei voti, nonostante tutto, erano abbastanza alti. Questo - ancora una volta - non mi metteva in una buona luce con le mie compagne e i miei compagni, che mi vedevano saltare le interrogazioni a sorpresa e arrivare in classe solo per le spiegazioni e i compiti programmati. Nessuna persona adulta ha saputo capire cosa mi stava succedendo: non i miei genitori - che stavano attraversando una crisi che poi li ha portati, fortunatamente per me, e finalmente, a separarsi -; non il corpo docente - il cui miglior consiglio era di “fare sport per sfogare la tensione” -; non altri adulti che avevo intorno - parenti, preti, animatrici e animatori.
A un certo punto hanno iniziato a mettere in dubbio che io stessi veramente male. Si era ventilata l’ipotesi che il mal di testa fosse “psicosomatico”. La presenza di quel prefisso, “psico-”, ha fatto sì che intorno a me si iniziasse a dire che fosse tutta una sceneggiata per non andare a scuola, che fosse un modo per evitare le interrogazioni. Io mi sono sentita totalmente abbandonata. E per una persona come me, costituzionalmente incapace di mentire (piuttosto ometto informazioni, ma proprio come extrema ratio), questa è stata un’ulteriore fonte di umiliazione e stress.
Ho resistito, ancora non so bene come. Il mio cervello però è sempre stato molto bravo a dimenticare gli episodi traumatici, a sfocarli. Il giorno stesso in cui mi sono trasferita a Mestre per frequentare l’università, il mal di testa è magicamente sparito. Mi sono comparsi nel tempo altre malattie e altri disagi, ma questa è un’altra storia: prometto che la racconterò in futuro.
Un passaggio da “Troppo intelligenti per essere felici”
Oggi il bilancio clinico è preoccupante: i bambini ad alto potenziale cognitivo hanno un percorso scolastico spesso molto caotico, sono psicologicamente fragili, hanno fondamenti narcisistici incerti e patiscono di una consapevolezza dolorosa del mondo. Alcuni, grazie alla loro personalità, riusciranno a mettere in campo le difese e le risorse necessarie per trasformare questa particolarità in un punto di forza, in una dinamica di vita positiva. Ma nei bambini il cui sviluppo sarà segnato da una serie di problemi affettivi si manifesteranno disturbi psicologici. Durante l’adolescenza gli scompensi psicologici sono frequenti e si accompagnano a quadri clinici atipici, a processi terapeutici difficili e a una prognosi talvolta infausta.
La situazione sarà più o meno critica a seconda che il bambino abbia ricevuto una diagnosi oppure no e, in caso affermativo, in quale momento sia stata fatta. Un bimbo che cresce senza sapere chi è davvero rischia seriamente di sviluppare disturbi psicologici. In età adulta, avrà una personalità instabile e vacillante, costruita su ferite e rinunce, credenze erronee riguardo a se stesso e al mondo, oppure rigidi meccanismi attivati per proteggersi dalla propria vulnerabilità estrema. Caotico, accidentato, tortuoso, il percorso dell’adulto plusdotato è molto spesso disseminato di ostacoli. Naturalmente alcuni riusciranno a trovare un buon equilibrio esistenziale, a costruire progetti soddisfacenti e ad avere una vita felice. Ma non possiamo ignorare – anche se l’opinione comune vorrebbe farci credere che i plusdotati realizzati sono la stragrande maggioranza – tutti quegli uomini e quelle donne in crisi, che soffrono perché non sanno chi sono.
Jeanne Siaud-Facchin
Se ti riconosci in queste parole, o riconosci la tua bimba o il tuo bimbo, valuta di intraprendere un percorso diagnostico8. 💜
Sono Elena, ma mi chiamano anche Cassandra. Ho la fissa delle parole dacché ho memoria. Parlo di parole (anche di quelle che non esistono) come speaker e moderatrice. Insegno quanto sono potenti in corsi sul linguaggio chiaro e accessibile, responsabile e consapevole, con un focus su età, genere, neurodivergenze, morte, lutto e lavoro. Scrivo di femminismi e giustizia sociale su RSI (Radiotelevisione svizzera). Con l’associazione Caratteri Cubitali mi occupo di accessibilità digitale.
Se vuoi collaborare con me, scrivimi a info@elenapanciera.it.
Ancora qualche consiglio
L’intervista di
a Immanuel Casto nel podcast “Fuori Norma”. Nella puntata “Neurodivergenze multiple” hanno parlato nello specifico di “plusdotazione” (un altro nome per chi ha un QI alto).La puntata su “ADHD e Plusdotazione - Un cervello in movimento” del podcast “Brain on Fire” (in 2 parti). Stefano Bramante intervista
(grazie a Manuel per il consiglio).È uscito il mio articolo su RSI “Cervelli strani e dove trovarli”. Non parla direttamente di alto potenziale cognitivo, ma cerca di fare chiarezza tra etichette varie, da “neurodivergenza” a “neurodiversità”.
Un recente approfondimento su Rai Parlamento: “Cos'è la plusdotazione?” (grazie a Lodovica per il consiglio).
Jeanne Siaud-Facchin, “Troppo intelligenti per essere felici. La plusdotazione intellettiva: riconoscerla, comprenderla, conviverci”, BUR, 2019.
A febbraio 2025 ho ricevuto una diagnosi di disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) e alto potenziale cognitivo (APC). Si parla di APC quando il quoziente intellettivo (QI) è superiore a 120, considerando una media statistica di 100. L’APC viene definito attraverso diversi test, che misurano la comprensione verbale, il ragionamento visuo-percettivo, la memoria di lavoro e la velocità di elaborazione.
Sì, si dice così. Se non credi a me credi all’Accademia della Crusca.
Qui non nascondo il nome perché è troppo bello, dai.
Maschile voluto: erano sempre maschi. Le bambine se la gestivano meglio.
Spoiler: non ho ancora imparato a usarla. O meglio: ricordo benissimo alcune cose, ma non c’è verso che ne memorizzi altre. Credo dipenda anche dall’ADHD.
Da 100 abitanti a 40.000: un bel salto.
Io mi sono affidata a professioniste e professionisti del network RITA (Rete Italiana ADHD). Mi sono trovata bene. Te li segnalo solo per questo: non ho affiliazioni né beneficio alcuno a consigliarli.
Tutte le bambine precoci che conosco hanno una newsletter, sono attiviste di qualchecosa e soffrono terribilmente per la loro sensibilità. Ah, e ovviamente sono precarie, alla faccia del "questa da grande non ci darà preoccupazioni". Abbracciamoci ❤️🩹
Mi sa che substack si è mangiato il commento che stavo scrivendo, dicevo: leggendoti stavo pensando questa cosa (oltre a ovviamente 'tutto vero, tutto giusto, che strazio di fatica'): anche io ricordo di avere realizzato - anche se non era veramente una realizzazione, perché non era un fatto oggettivo, stavo interiorizzando un'idea - di essere brutta, bruttissima, quindi tanto valeva essere quella intelligente. Ma veramente presto. Ecco, mi chiedo quanto abbia influito in questo nostro abbracciare a peso morto e con tutte le conseguenze nefaste future del caso questa caratteristica a scapito di tutte le altre il fatto di essere state cresciute dentro una cultura del corpo per niente accogliente e molto giudicante. Perché poi guardi queste foto di bambine e non ti capaciti da dove possa essere venuta questa credenza fortissima e radicata così profondamente, perché di sicuro non viene dal dato di fatto oggettivo.