07. La geografia delle emozioni
Questa lettera, leggermente più lunga del solito, parla un po' di geografia, un po' di emozioni, un po' di morte. Il mio umorismo è dark, e ogni tanto mi scappa una battuta, ti avviso.
Queste lettere si chiamano “Geografie emotive”, perché una volta su Instagram ho parlato di come le cose siano cambiate per me, dentro di me, dopo la morte di Federico. Di come le mie “geografie emotive” si siano modificate. Di come i miei punti di riferimento interiori ed esteriori siano mutati. La mia bella amica Francesca Meana, che ha curato la mia identità visiva nel momento in cui ho deciso che dovevo smetterla di fare la scappata di casa investire seriamente su di me dal punto di vista professionale, ha preso quell’espressione e me l’ha proposta come “payoff”1. Io mi ci sono riconosciuta subito.
Da piccola odiavo la geografia, in realtà - ma è anche vero che me l’hanno insegnata in un modo noioso da morire, nomi e nomi e nomi da imparare a memoria (e ormai lo sai che la memoria non è il mio forte).
Da adulta, ho fatto un po’ pace con la geografia all’università, grazie a un corso (obbligatorio, sennò non l’avrei scelto nemmeno sotto tortura, sbagliando) di Francesco Vallerani, uno dei pochi professori di cui ricordo ancora il nome e le lezioni, e con tanto affetto. Vallerani mi ha insegnato che anche la geografia è politica2, e che è molto più di centinaia di nomi imparati a memoria. Chi se ne frega di ricordare qual è la capitale dell’Honduras: parliamo di come le maxi dighe distruggono popoli e ecosistemi per alimentare l’economia capitalista.
Una delle cose che mi piace di più al mondo è viaggiare. Qualche anno fa mi sparavo un museo dopo l’altro, una chiesa dopo l’altra, fino allo sfinimento. Oggi viaggio con uno sguardo curioso sulle persone. Direi “sociologico” o “antropologico”, se volessi tirarmela e fossi anche solo vagamente cosciente di cosa sono la sociologia o l’antropologia. Invece, dico che a me piace osservare le persone che vivono in un luogo. Vedere come interagiscono, cosa gli piace o non gli piace fare, cosa comprano al supermercato, come si vestono, dove escono la sera, se le donne si fanno la manicure, se gli uomini portano la barba, quante e quali persone usano i tacchi, come si vestono per uscire in città, cosa mangiano di solito, che orari hanno, quanto lavorano, cosa fanno durante il fine settimana, se sono credenti, se sono aperte alla diversità, se gli piace ballare il tango… cose così.
Mi piace viaggiare, è una delle attività che mi danno più energia. Mi piace cambiare scenario (sarà l’ADHD?), mi piace non avere piani (sarà l’ADHD?), mi piace conoscere nuove persone e mangiare nuove cose (sarà l’ADHD?). Quando stavamo insieme, viaggiavo con Federico. Era una delle attività che ci piaceva davvero tanto fare insieme, soprattutto da quando io avevo smesso di organizzare e avevo delegato tutto a lui, visto che nulla di quello che gli proponevo andava bene e trovava sempre soluzioni, a detta sua, “migliori” (sarà stato il suo autismo, mai diagnosticato, ma di cui sono intimamente certa?). In realtà, visto che io organizzo il minimo indispensabile e solo per sopravvivere, a me andava benissimo che si occupasse lui di tutto. Così potevo occuparmi delle PR3.
Da quando è morto Federico, alcuni luoghi non sono più stati neutri, per me. Hanno assunto nuovi significati. Luoghi che abbiamo visto insieme, come Berlino. Ma anche luoghi banali, come Trivignano in provincia di Mestre Venezia. Un posto che triste che più triste di così non si può. Piatto, insignificante. Campagna veneta. Io sono originaria delle Dolomiti bellunesi: tutta un’altra storia, via, di che stiamo parlando. Quanto ho odiato Trivignano. Eppure ci ho vissuto per 2 anni circa, con lui. Un posto che non avrei scelto nemmeno sotto stupefacenti. Inutile, privo di identità, scomodo, puzzolente. L’ho odiato con tutte le mie forze, mentre ero forzata a stare lì. Io mi forzavo, eh, mica Federico. Perché avevo capito che quella persona valeva quello sforzo. E lui non aveva mai vissuto fuori da Trivignano. Non aveva idea di cosa significasse vivere in un posto diverso da quello in cui hai sempre vissuto. Quindi gli avevo dato un aut aut che per lui fosse accettabile: “O vengo a vivere da te, e vediamo come va, oppure ciao, buona fortuna”. Mi aveva detto: “Ok, dai, vediamo come va”. In fondo, ero io quella che aveva tutto da perdere. Stavo a Parigi in quel momento.
Non ho mai imparato ad amare Trivignano. Tant’è che un paio di anni dopo, frustratissima professionalmente, gli avevo detto: “Ma se trovassi lavoro da un’altra parte?”. Lui mi aveva detto: “Ti prego, accetta, questo posto è la tua morte cerebrale”. E così avevo fatto: avevo trovato lavoro a Milano e mi ci ero trasferita, da sola. Lui è arrivato 3 anni e mezzo dopo, ma questa è un’altra storia.
A Mestre ci avevo vissuto tanti anni mentre frequentavo l’università. Me l’ero fatta andare bene, prima per motivi economici (una stanza a Venezia non potevo permettermela), e poi perché lì vicino c’era Federico. Oggi, per me, quei luoghi - Trivignano, Mestre - sono imprescindibilmente legati a lui. Li frequentavo perché c’era lui. Ora mi è diventato quasi intollerabile tornarci, anche se ci vivono alcune delle persone che amo di più al mondo. Andare lì significa, inesorabilmente, fare un tuffo nel passato, in un passato in cui c’era Federico e io ero una persona diversa - non necessariamente più felice, diversa.
Quando ci vado, prendo la rincorsa e mi tappo il naso. Sto in apnea per tutto il tempo che sto lì. I semafori, la pizzeria da asporto, la rotonda con l’anguriaro. Trattengo il fiato, sorrido e fingo di stare bene. La fermata dell’autobus, la pasticceria, la sequenza di curve e rettilinei che mi porta dove abbiamo vissuto insieme. Quella sequenza di curve e rettilinei che il mio corpo aveva imparato a riconoscere in un modo che non ho mai capito, tanto che, tutte le volte che tornavamo a casa in macchina da una gita, lui alla guida e io addormentata come un sasso, mi svegliavo sempre nello stesso punto, alla penultima curva.
Milano, il quartiere che abbiamo scelto per vivere, l’appartamento che abbiamo comprato, ristrutturato, arredato insieme, sono rimasti invece luoghi sicuri. Mi hanno accolto, sono stati il mio nido per un paio d’anni dopo la morte di Federico, prima di iniziare a starmi stretti. Ma ci ho messo quasi 3 anni a tornare a dormire in quella che era la nostra camera, e poi è diventata la sua - quando abbiamo iniziato a dormire in camere separate, una delle decisioni migliori del nostro rapporto4.
A Pralongo, in Valzoldana, dove è morto, e dove ho trascorso i 12 giorni più assurdi e traumatici della mia vita, cercandolo con tutte le mie forze, ci sono tornata una sola volta, circa un anno dopo. Ci sono tornata con alcune delle persone che mi avevano circondata, supportata, amata in quei giorni. Volevo dimostrare a me stessa che potevo farlo. Volevo rompere la maledizione - perché odio l’idea di avere paura, qualsiasi tipo di paura. Se penso che qualcosa mi possa spaventare, cerco di farla.

A Pralongo ci sono nata, e l’ho sempre odiato. Non ho mai tollerato la dimensione claustrofobica del paesino, dove chiunque ti conosce, sa chi sei, e di chi sei5. Mi ero annoiata mortalmente alle elementari e alle medie. Perfino dal punto di vista estetico, credo che Pralongo sia uno dei posti più brutti dell’intera valle, senza sole né grandi vedute panoramiche. Avevo accolto con sollievo la decisione di trasferirci a Belluno, il capoluogo di provincia, ben 40.000 abitanti6.
Avevo ricominciato a frequentare la valle con Federico, perché lui amava la montagna. Ci andavamo un paio di volte l’anno - lì c’erano mia nipote e alcune persone della mia famiglia d’origine che ancora frequentavo. Ma ho sempre preferito Fornesighe, il paese natale di mia madre.
A Pralongo ci sono tornata a settembre 2022. Non credo ci tornerò in questa vita. Già odiavo quel posto; ora che è diventato la tomba di Federico7 lo odio ancora di più.
Uno dei primi viaggi che ho fatto dopo la sua morte è stato a Berlino. L’avevamo visitata qualche anno prima insieme, e mi aveva affascinato per i musei e la vivacità culturale. Conosco molte persone che vivono lì, amicizie care. Ci sono tornata e mi sono riappropriata della città vivendola in modi diversi da come l’avevo vissuta con lui, che era una creatura solidamente diurna: un po’ da sola, e un po’ di notte. Ho scoperto una Berlino diversa, completamente diversa da quella che ricordavo. L’ho camminata in lungo e in largo. Ho frequentato parchi e caffè, ma anche gli “Späti”, i piccoli negozi di quartiere che vendono, tra le altre cose, alcolici e sigarette, e qualche periferia. Ho ridisegnato la mia nuova mappa della città, aggiungendo luoghi e strati.
Potrei continuare, e invece mi fermo qui, per oggi.
Se ti va, raccontami quali sono i posti che hai ridisegnato dopo una perdita, un lutto, una rottura.
Ci sentiamo tra un po’, quando avrò di nuovo qualcosa da dire.
Vorrei ringraziare le oltre 900 persone che si sono iscritte a queste letterine casuali in meno di 2 mesi. Incredibile. Altro che “diario segreto”: ormai siete una moltitudine.
Vorrei ringraziare con particolare calore le 2 persone che si sono abbonate a pagamento, sulla fiducia, ancora prima di sapere che avrei continuato a scrivere con una certa costanza (sono la prima a essere incredula), e sapendo che non riceveranno nulla di diverso da chi ha un abbonamento gratuito, se non la mia gratitudine imperitura e un caffè, se mai ci conosceremo di persona.
Io me ne sono accorta da poco, perché come puoi aver intuito i numeri, i dati e le statistiche non sono il mio forte.
Queste 2 persone speciali e piene di fiducia nell’umanità (e in me) si chiamano Laura e Michele. Grazie. Ma davvero, di cuore. Vi voglio bene.
Ho attivato gli abbonamenti a pagamento essenzialmente perché Substack ti sfinisce finché non cedi. Mai avrei creduto che 2 persone vere credessero in questo progetto tanto da supportarlo anche economicamente. Ovvero, che ci credessero più di quanto ci credessi io. E invece.
Ora mi tocca continuare a scrivere, sennò chi dorme più la notte per i sensi di colpa.
Sono Elena, ma mi chiamano anche Cassandra. Ho la fissa delle parole dacché ho memoria. Parlo di parole (anche di quelle che non esistono) come speaker e moderatrice. Insegno quanto sono potenti in corsi sul linguaggio chiaro e accessibile, responsabile e consapevole, con un focus su età, genere, neurodivergenze, morte, lutto e lavoro. Scrivo di femminismi e giustizia sociale su RSI (Radiotelevisione svizzera). Con l’associazione Caratteri Cubitali mi occupo di accessibilità digitale.
Se vuoi collaborare con me, scrivimi a info@elenapanciera.it.
Ancora qualche consiglio
Non me la sono inventata io, l’espressione “geografie emotive”. Anche se dal mio punto di vista sì, dato che non l’avevo mai sentita prima. In realtà questa è una disciplina di studio: l’ho scoperto un paio di anni fa da quel pozzo di conoscenza che è sempre stata per me Mara Pieri. C’è un libro che non è mai stato tradotto in italiano che si intitola proprio “Emotional Geographies”, curato da Liz Bondi, Joyce Davidson e Mick Smith e pubblicato nel 2006 da Routledge. Online si trova l’introduzione, in inglese: “Introduction: Geography’s ‘Emotional Turn’”. Ma se inizi a googlare “emotional geography” finirai nella tana del Bianconiglio, come ho fatto io.
Puoi avere un assaggio di come erano le lezioni di Francesco Vallerani guardando su Rai Play la puntata di “Alla scoperta del ramo d'oro” in cui parla del rapporto tra gli esseri umani e l’acqua, in particolare i fiumi. Fa anche una piccola digressione sul genere dell’acqua e delle parole che la definiscono (mare, fiume…), che mi ha un po’ ricordato la riflessione su “lingua madre” e “patria” che ho fatto un po’ di tempo fa per RSI.
Uno dei libri che Vallerani aveva consigliato durante il corso di Geografia è stato “Acqua e comunità”, di Colin Ward, uscito per Elèuthera nel 2003, che è stato totalmente trasformativo per me. Mi ha fatto capire quanto la gestione e il controllo dell’acqua siano politici, e quanto dipenda da questo il futuro dell’umanità. Secondo me è ancora attuale, nonostante abbia più di 20 anni.
Sono in vena di consigli vintage. “Venezia è un pesce”, di Tiziano Scarpa, uscito per Feltrinelli nel lontanissimo 2000: un perfetto esempio di geografia delle emozioni.
Scrivendo questa lettera, il mio pensiero è corso spesso alla Palestina. Uno degli “effetti collaterali” di un genocidio è il “domicidio”, cioè “la distruzione deliberata e sistematica di case, palazzi e infrastrutture civili in un insediamento abitato, in una città o in una zona circoscritta” (definizione di Treccani; ti consiglio anche la puntata del podcast di Vera Gheno “Amare parole” proprio sul domicidio). Questo significa la distruzione di una parte fondamentale della geografia emotiva delle persone che abitano un luogo. Un’azione violentissima e crudele. Se puoi, fai una donazione, per esempio a UNRWA, Emergency o Medici Senza Frontiere.
Il “payoff”, nel marketing, è una frase breve, anche brevissima, che accompagna il nome e il logo di un brand - nel mio caso, il mio nome e cognome. Descrive in modo incisivo, breve e memorabile le attività e i valori del brand.
Public Relations (relazioni pubbliche), ovvero fare casino e conoscere un sacco di gente nuova che ci ospitasse gratis.
Questa cosa che se si sta insieme si “deve” dormire insieme io l’avevo interiorizzata ben bene. Per anni è stato un incubo - per fortuna abbiamo convissuto relativamente poco. Io amo svegliarmi con la luce naturale, la notte ho freddissimo in inverno e caldissimo in estate, raramente mi addormento prima di mezzanotte (o anche più tardi) e la miglior ninnananna è un podcast che si spegne da solo dopo un po’. Federico alle dieci era pronto per dormire, tendeva a coprirsi poco sia d’estate sia d’inverno, e non riusciva a dormire se nella camera non c’era buio e silenzio assoluto. Io lo prendevo in giro, gli dicevo che mi sembrava una tomba - forse faceva le prove generali.
La domanda che ti fanno, in paese, se non ti conoscono, non è: “Chi sei?”, ma “Di chi sei (figlia, o figlio)?”.
Sembra ironico, e un po’ lo è. Ma Pralongo avrà 100 anime che ci vivono: il salto è quantico.
Federico ha una tomba, nel suo paese d’origine. Ho assistito alla tumulazione, ma poi non ci sono più tornata. Per me non ha alcun significato. Quello che c’è lì non è Federico. Lui è rimasto tra le montagne, in mezzo agli scoiattoli e a quei maledetti pini mughi che l’hanno inghiottito - che ne facciano grappa fino a estinguerli.
Per quanto possa essere un racconto personale, le tue parole mi hanno dato un senso di casa. Un senso di "caspita, ma anche per me è così".
Anch'io sono originaria di un paesino. O meglio, un paesino che valeva come una città ma che ora è tornato a essere paesino. Ogni volta che torno, mi sento addosso gli sguardi e sento le parole del tipo "ma quella lì non è la figlia di... e non viveva distante?". Ecco, cose così.
Uno dei posti che costituisce diversi significati emotivi, per me, è un piccolo paese che si chiama Avigliano Umbro.
Quando ci arrivai la prima volta, cinque anni fa, lo feci perché ero innamorata di una persona che viveva lì vicino. Ci passai l'estate e, con la fine dell'estate, arrivò anche la fine di quella relazione. Sembra una storia da quindicenni ma è avvenuta quando ne avevo 42. La percezione di quel luogo, però, è cambiata col mio cambiare.
Avigliano è casa lontano da casa: è una parte della mia anima e ora è qualcosa di puramente mio.
Così mio che faccio fatica a condividerlo con chi, invece, fa parte della mia vita ora.
anche se per ragioni di gran lunga molto meno traumatiche di quelle che ti hanno fatto riappropriare di luoghi come Berlino o allontanare da posti come Mestre, negli ultimi anni ho rinegoziato il mio rapporto con Trieste. ho vissuto i quattro anni di dottorato là con un senso di fallimento e di essere nel posto sbagliato, sia perché avevo il moroso a modena, e quindi volevo sempre scappare là, sia perché mi ritenevo incapace e di non meritare di essere in quella scuola con tutte quelle persone intelligentissime e bravissime. negli anni subito successivi l'ho scansato, sentendolo come un luogo (e un tempo) di occasioni perdute. ora è il posto dove ogni anno torno a fare una cosa che amo, che ho cominciato a fare pochi anni fa e che non c'entra assolutamente nulla né con il dottorato né con il lavoro: correre (la magnifica mezza maratona che parte da Duino e arriva in piazza Unità). ora Trieste l'associo alla primavera, allo spazio esperito con gioia e fatica metro dopo metro e so che è bello per me tornarci qualche giorno, ma è ok che non ci viva più.